
Il Russian Center di Kabul e' forse il luogo piu' terribile in cui sia mai stato. Peggio delle capanne in Sud Sudan dove ragazzi Dinka si spegnevano di AIDS, peggio della casa dei morenti di Madre Teresa a Calcutta, peggio di qualsiasi reparto ospedaliero in cui abbia messo piede.
Il Russian Center e' l'inferno dantesco: un immenso palazzo abbandonato e distrutto dalle bombe in cui vivono circa 1,500 drogati. Le stanze sono buie, claustrofobiche e puzzano di marcio: ovunque siringhe, spazzatura, pezzi di frutta, sigarette, schifo. Dentro, come ombre dietro la luce filtrata dall'alto, ci sono decine di drogati che fumano di tutto, si iniettano, dormono, pisciano in un angolo, rantolano di polmonite e vivono un qualcosa che non e' vita.

Ci sono entrato con il direttore del programma AIDS e due operatori di una ONG che lavora qua e che la Banca sosterra'. Ho visto un uomo cadere in overdose, un altro cercare di legarsi la siringa alla mano per poi fallire e spruzzare sangue ovunque, un altro, occhi persi e un coltello ben legato al polso, che mi chiedeva soldi. Ero li' in mezzo e le ombre intorno a me aumentavano: un paio di drogati hanno incominciato a litigare, altri si sono avvicinati, e a un certo punto, con la nausea che saliva, ho chiesto al direttore di portarmi via. Siamo usciti e c'era il sole grigio e impolverato di Kabul. Un sole magnifico se comparato con l'inferno di quel tugurio di vite abbandonate e senza speranza.
Questo giorno di ferragosto a Kabul mi ha riportato a Primo Levi, a Elie Wiesel e a quell'umanita' persa per sempre, schiacciata dalla storia e dall'indifferenza. Per fortuna c'e' Alice e il suo "Tanti auguri Daddy" cantato dall'altra parte del mondo con voce che ride: torna la voglia di vivere, la speranza e il desiderio, forte, di rientrare a casa.
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