Dopo un paio di settimane cadenzate da tanto lavoro, poco sonno e picchi di ribellione gastrointestinale, mi ritrovo sull’aereo per Dubai a cercare di spiegare la magia dell’Afghanistan e il gran privilegio di poterci lavorare. Lo faccio qua sotto in un fotoracconto un filo lungo. E’ per chi ha voglia di leggere o solo di guardare le foto...
“Il fatto e’ che li’ tu ti diverti”. Me lo dice Laura, con il suo sorriso bello e un pizzico di malinconia, la sera prima di partire. Lascio lei e la Pina e non e’ bello. Ho la fortuna che una mi conosce e capisce, l’altra ancora non sa. Rashid, il taxista etiope di fiducia porta Matteo e me all’aeroporto. Si vola e si vola e alla fine attraverso un cielo carico di neve e acqua l’aereo delle Nazioni Unite sbuca dalle montagne imbiancate poco sopra Kabul.
Kabul e’ cambiata. Cinque anni fa le strade erano piene di biciclette e carretti con pennacchi variopinti: qualche taxi giallo e bianco qua e la’ ma niente di piu’. Oggi le strade sono un ingorgo di macchine. Si sta in coda a lungo e l’aria e’ piena di polvere e scarichi di automobili. A Kabul arrivano 600 nuove auto al giorno, prevalentemente da Dubai; road infrastructure e’ la priorita’ numero 1 del governo afghano: in un paese dalle lunghe distanze la crescita e’ legata allo sviluppo delle strade. Ne fanno le spese l’ambiente e la poesia del luogo.
A Kabul ci dedichiamo ad una serie di incontri al Ministero della Sanita’. E’ un momento interessante per la politica dell’Afghanistan. Il nuovo parlamento sta mettendo sotto torchio Karzai e i suoi ministri devono rispondere ad uno ad uno del loro operato per essere riconfermati. E’ la democrazia in azione e Karzai se la sta vedendo brutta. Il ministro della Sanita’ dovrebbe essere confermato anche grazie al successo del progetto della banca che sta portando servizi sanitari di base nelle zone piu’ remote del paese.
Proprio nelle zone piu’ remote del paese ho passato le giornate piu’ interessanti di questo viaggio. Siamo partiti da Kabul, direzione nord. Dopo un’ora di strada abbiamo incominciato ad arrampicarci su strade tortuose in valli molto strette. Ci sono solo pochi paesini, fatti di terra e sassi. Si confondono coi colori della montagna. Sono li’, isolati, come da sempre. Sta arrivando la primavera e tutto e’ un fiore: macchie di ciliegi bianchi e alberi porpora, perfetti per un quadro di Sollazzi, pittore pavese che Riccardo mi fece amare tanti anni fa.
Salendo piu’ su, la vegetazione scompare. La catena dell’Hindukush si staglia imponente. Le cime sono coperte di neve e li’ dobbiamo arrivare. In cima c’e’ bufera. Le macchine e i camion afghani non ce la fanno. Hanno delle catene primordiali che fanno paura. Siamo in cima, nella nebbia e sotto una tempesta di neve. Davanti a noi il Salang tunnel, un’opera colossale voluta dai russi, distrutta dai Talebani e ricostruita dagli Americani dopo la guerra. E’ un buco di cemento nella montagna a 4500 metri, lungo parecchi chilometri. Non e’ areato e quindi al suo interno le macchine si muovono in una nebbia smoggosa densa e fitta. Il tunnel ha delle aperture ai lati dalle quali entra la neve che si accumula sulle pareti del tunnel per parecchi metri di altezza. Cio’ che va in strada diventa ghiaccio. Spesso ci si rimane bloccati, a volte anche per ore. Noi ci abbiamo messo 20 minuti: un viaggio in un tunnel apocalittico dal quale si esce per incominciare la discesa verso Mazar I Sharif.
Dalla cima dell’Hindukush in poi incomincia uno spettacolo naturale incredibile: prima montagne estreme, poi pianure che l’occhio non segue, poi canyon profondi e poi ancora colline dolcissime. Gli spazi sono immensi e la natura e’ incontaminata e possente. Umiliante, nel senso letterale.
Nelle province di Samangan, Saripur, Balkh andiamo a visitare i centri sanitari che la Banca finanzia attraverso il Ministero della Sanita’ che a sua volte contratta i servizi a organizzazioni non governative.
I centri sono puliti, con buone riserve di farmaci, e soprattutto con abbondante personale medico ed infermieristico (cosa impensabile per qualsiasi paese africano!). L’unico problema e’ che poca gente utilizza i centri sanitari. In gergo economico, e’ piu’ un problema di domanda che non di offerta. E la domanda e’ bassa per diversi motivi. Innanzitutto i paesi sono dispersi in un raggio molto ampio: per molti residenti di piccoli paesini ci vogliono parecchie ore a piedi per arrivare al primo centro sanitario. Poi c’e’ la neve, almeno in inverno. In piu’ non esistono ambulanze e affittare una macchina ha un costo enorme che pochissimi si possono permettere. Esistono infine dei problemi culturali. 
Nonostante le visite antenatali siano aumentate moltissimo e i centri siano dotati di ostetriche qualificate, le donne non vengono a partorire, scegliendo di rischiare un parto a casa. Abbiamo chiesto e richiesto e la risposta e’ sempre stata una: partorire in un centro sanitario “is shameful”. Bisognera’ andarci piu’ a fondo e cercare soluzioni per risolvere anche questo problema: i dati sulla mortalita’ materna (terribili in Afghanistan) lo impongono. E’ una tipica sfida di sanita’ pubblica, quello che amo di piu’ del mio lavoro.
Un viaggio di lavoro come questo e’ fatto di mille cose: chiacchierate con i colleghi (afghani e non) nelle lunghe ore sulle toyota bianche, colazioni a base di kebab in ristorantini afgani dove non manderesti il tuo peggior nemico, notti in sacco a pelo o in stanze condivise con il tuo boss che russa, cieli senza luce a oscurare le stelle, discussioni con lo staff dei centri sanitari e delle ONG, the verdi a non finire, pranzi al sacco sul ciglio di una strada in mezzo ad un panorama incantevole. Tutto questo e’ il mio Afghanistan, che resta dentro come i parassiti che ormai da giorni funestano il mio intestino.
Ho cercato di raccontarne un pezzetto, con un po’ di foto e un po’ di parole (troppe!). Le metto sul blog questo venerdi pomeriggio mentre sorvolo l’Atlantico per tornare da Laura e da Pinetta.